
Vorrei oggi proporvi un film che mi è venuto in mente durante la conversazione con alcuni colleghi insegnanti. Ci stiamo infatti rendendo conto che molti ragazzi nulla sanno e soprattutto nulla comprendono dei drammatici fatti avvenuti in Europa più di sessant’anni fa. La questione principale, infatti, è che, molto spesso, la storia viene vista come un grosso monolite del quale ricordare date e fatti principali, come se quello che si va studiare fosse frutto della fantasia, come un qualsiasi romanzo. Molti prodotti cinematografici, documentari, televisivi, letterari hanno purtroppo avvallato questa tendenza, accumulando dati su dati ed informazioni, certamente molto interessanti, ma anche inutili e dannose se non accompagnate da qualche strumento che porti gli studenti all’interno della sofferenza umana, del dolore che si sprigionò così intenso durante il secolo scorso, della follia che sembra purtroppo riproponibile al giorno d’oggi.
Per questo propongo un film , “Senza destino”, che ha anche, come biglietto di presentazione, nomi assai prestigiosi: si tratta infatti dell’opera prima come registra dell’ungherese Lajos Koltai, già direttore della fotografia di Tornatore (“La leggenda del pianista sull’oceano”), a cui spesso è sfuggito immeritatamente il premio Oscar; le musiche sono dell’incommensurabile Ennio Morricone; la locandina è stata creata da Oliviero Toscani; la storia si basa sul romanzo “Essere senza destino” di Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura nel 2002, che firma in proprio la sceneggiatura. La storia è autobiografica e ha come protagonista il giovane Kertész, qui con il nome di Gyuri Koves, quattordicenne, e quindi più o meno coetaneo dei nostri studenti, ebreo ungherese di buona famiglia, che osserva, impotente e incredulo, prima gli effetti delle leggi razziste nell’Ungheria occupata dal ’39 al ’44, poi la deportazione del padre in un campo di lavoro, infine viene egli stesso rastrellato mentre si trova sull’autobus che dovrebbe portarlo a scuola (tristemente, sembra quasi una metafora creata apposta...). L’odissea di Gyuri, che passa velocemente da ragazzino spensierato a uomo in una situazione ai limiti del bestiale (“Il campo di concentramento è molto peggio di un girone dell’inferno”), si snoda tra Auschwitz e Buchenwald, ma forse la parte più interessante e più significativa è il ritorno a casa, il conto dei morti e l’incredibile indifferenza con cui viene accolto dalla popolazione, dagli amici, dai vicini di un tempo, che cercano di convincerlo a gettarsi tutto alle spalle. Ma Gyuri rifiuta la risposta rassegnata che gli anziani proponevano prima della deportazione (“É il volere di Dio”) e cerca di ricordare il più possibile, da ragazzino vitale e ottimista com’era prima dell’orrore, e afferma, contro tutto e contro tutti: “persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno”. Questo non deve assolutamente far pensare che il film cerchi di dare una visione tutto sommato sopportabile dello sterminio (alcune scene del film sono particolarmente raccapriccianti, attenzione!), ma le parole di Gyuri/Kertész sono una straordinaria affermazione di vita, di speranza, di libertà, di tutto ciò che dovrebbe essere più superbamente “umano”, tanto che lo scrittore, dopo aver pubblicato il libro nel 1975, dopo dieci anni di faticosa elaborazione, ha deciso di proteggere per lungo tempo la sua opera e il suo messaggio da trasposizioni cinematografiche superficiali, per poi affidarli a Koltai, che, nonostante alcune ingenuità e una messa in scena che in alcuni punti sfiora la retorica, dà prova di attenzione soprattutto nel suo campo di competenza, e cioè nella fotografia: dal colore si passa gradatamente al bianco e nero, proprio in parallelo con la “Vita” che si dissolve tra le efferatezze. Il film risulta sobrio, puro, alieno da patetismi ed enfasi, scarno come i suoi protagonisti e per questo forse maggiormente d’impatto.
Alcuni dati tecnici: il protagonista è impersonato da Marcell Nagy, bravissimo giovane attore, già protagonista di una trasposizione de “I ragazzi della via Paal”, il cui viso, smunto, struggente, bellissimo, viene coperto da un’enorme svastica nera nella locandina.

Il film è la più grande produzione ungherese, che si avvale anche della cooperazione di Germania e Gran Bretagna, ed è stato presentato al Festival di Berlino l’anno scorso, mentre in Italia è uscito il 27 gennaio scorso, giorno della memoria della Shoa. Come già detto, i ragazzi vanno ben preparati alla visione del film e l’insegnante deve fare attenzione ad alcune scene particolarmente cruente. Il percorso verso la visione dell’opera può essere utilmente sostenuto dalla lettura del libro di Kertész, pubblicato dalla Feltrinelli.
Il sito in inglese del film (con il titolo di “Fateless”) è:
http://www.fateless.co.uk/index.htmlmentre quello ufficiale (titolo originale “Sorstalansag”) è:
http://www.intercom.hu/honlapok/sorstalansag/